Il lato emotivo della proprietà

La pubblicazione del saggio dal titolo ad effetto «The Bestseller Code», ha fatto scalpore. L’opera si basa su un’analisi «big data» di testi di libri alla ricerca di modelli ricorrenti e formule di successo. Si è evidenziato che i più grandi bestseller trattano sempre tematiche riguardanti le relazioni interpersonali.

Ma cosa c’entra tutto ciò con la proprietà? C’entra eccome.

La proprietà fa sì che si instaurino rapporti tra le persone. In essa si riflettono libertà e dipendenza, sviluppo e regressione, potere e impotenza, doveri e piacere. La nostra concezione di giustizia si basa su quanto riceviamo di una data cosa. Chi non ci crede, dovrebbe assistere all’apertura di un testamento.

Attualmente assistiamo a una trasformazione epocale nel legame con la proprietà, al termine della quale non sappiamo ancora cosa rimarrà di questo concetto. Le generazioni Y e Z (i nati rispettivamente dopo il 1980 e dopo il 2000) hanno stravolto completamente il rapporto con le cose e le persone: gli status symbol di una volta non hanno più valore, la proprietà è considerata un peso e l’esclusività come qualcosa di sopravvalutato. Oggi, ciò che più conta sono l’accesso e la partecipazione. Grazie alla «sharing economy», la proprietà lascia il posto al mero utilizzo di un oggetto. Perché risparmiare per acquistare una casa di vacanza quando c’è Airbnb? Chi usa ancora i DVD nell’epoca di Netflix? A che pro tenersi un auto in garage se posso usare, a pagamento, quella del vicino, così come il trapano o il tosaerba?

La proprietà fa sì che si instaurino rapporti tra le persone.

La proprietà rispecchia lo spirito di un’epoca e dei suoi valori. È così da sempre. Secondo Platone, lo Stato ideale doveva essere governato da filosofi nullatenenti, Socrate riteneva che possedere poco equiparasse gli uomini agli dei, i quali non hanno bisogno di nulla. Per contro, lo spirito protestante del capitalismo di Max Weber voleva sempre creare nuovi bisogni. Erich Fromm affrontava invece la questione dell’essere o dell’avere. Ma quale scala di valori si cela dietro lo scetticismo delle giovani generazioni nei confronti della proprietà?

Sono più che altro le circostanze che determinano i valori e le loro priorità, e non il contrario. Il fatto che la proprietà stabile venga vista come una palla al piede dipende anche dal moltiplicarsi delle occasioni a fronte di una mobilità che è diventata sempre più grande. 150 anni fa ci si spostava nel raggio di 200 km dal proprio luogo di residenza; oggi, gli studenti alla fine del liceo volano in Tailandia o Australia. I nostri giovani non vedono di buon occhio l’idea di avere vincoli. Acquistano meno, e si limitano sempre più a «dare solo un’occhiata», sono turisti della quotidianità.

Utilizzo a caro prezzo

La «sharing economy» sembra una moda innocente (vedi il motto «sharing is caring»), ma solleva molte domande. Spesso, infatti, con l’«economia della condivisione» si finisce anche col pagare tanto quanto prima per ottenere meno. Con la musica è già una realtà, senza che ciò abbia destato grande scandalo: le canzoni scaricate da iTunes non si possono regalare né lasciare agli eredi, tutt’al più si possono ascoltare per un determinato periodo di tempo su un numero limitato di dispositivi. Anche gli e-book di Amazon sono solo licenze per copie digitali.

Il cambio epocale nel rapporto con la proprietà consiste nell’abbandono dell’attaccamento feticistico all’oggetto posseduto a favore di una custodia temporanea, e a pagamento, di qualcosa che si può solo ammirare. Se per l’economista e sociologo francese Proudhon la proprietà è un furto, cos’è allora questa forma di «sharing economy» se non una frode? Una simile considerazione lascia sicuramente impassibili i giovani, ai quali non tange nemmeno il fatto che per utilizzare Google, Facebook & Co. paghino con i loro dati, senza poter richiedere un rimborso o anche solo stabilire un prezzo.

Non è detto che la «sharing economy» sia un’economia più sostenibile, umana e rispettosa delle risorse. In essa si possono scorgere anche tratti di una «careless society», una società senza il minimo interesse a prendersi cura delle cose. Molte persone vogliono consumare e restituire o gettare, senza possedere, riparare, conservare e trasmettere ai posteri. La proprietà vincola. L’utilizzo, invece, non obbliga a farsi carico delle cose. Chi possiede e cura un giardino, sa quanto lavoro si cela nella bellezza.

La «sharing economy» sembra una moda innocente, ma solleva molte domande.

Per i giovani, condividere e ­utilizzare è più importante che possedere. Nel corso della vita, però, molte persone si ­rendono conto che essere ­proprietari significa anche ­godere di una certa libertà e ­autonomia.

Proprietà significa autonomia

Per concludere, proprietà non è solo sinonimo di avidità e accumulazione. Il rapporto con le cose coinvolge anche la sfera delle emozioni. La psicologia comportamentale parla del cosiddetto «effetto dotazione» in base al quale il proprietario tende regolarmente a sovrastimare il valore della propria casa rispetto al prezzo di mercato, proprio per il legame emotivo che si è venuto a creare. Spesso i giovani non conoscono ancora questa sensazione. Più avanti, però, quando il continuo afflusso di persone nelle grandi città farà sì che ci saranno oltre 100 potenziali inquilini interessati a un appartamento in affitto, anche loro capiranno che la proprietà è sinonimo di libertà e autonomia, mentre il semplice utilizzo di un oggetto potrebbe essere una chimera.

Milosz Matuschek è giurista, pubblicista e speaker e vive a Berlino. Insegna alla Sorbona di Parigi e scrive periodicamente per la NZZ.

Nell'articolo gli autori esprimono la loro ­opinione. Questa non sempre
coincide con quella della redazione.


Foto: gateB, unsplash.com