Dalla casa di lusso al «cassone abitabile»
L’uomo più ricco dell’India vive su 27 piani. Centinaia di milioni di persone, invece, devono cavarsela con pochi metri quadri. Soprattutto in Asia gli estremi sono all’ordine del giorno. Anche Zurigo suscita scalpore con alcuni esperimenti radicali.
La superficie della sua casa supera quella della reggia di Versailles. Mukesh Ambani, l’uomo più ricco dell’India, vive con la sua famiglia su 37’000 metri quadri, il che rende la «casa unifamiliare» del magnate petrolchimico a Mumbai l’edificio più grande e probabilmente più costoso del pianeta.
Qui, gigantismo e lusso si fondono alla perfezione. Il palazzo è costituito da 27 piani, per 173 metri di altezza, e accoglie un tempio Krishna, un cinema, alcuni giardini pensili, tre eliporti, un’autofficina, la più grande sala da ballo dell’India e un piano completamente dedicato al benessere, con solarium, Jacuzzi, una palestra per lo yoga e stanze dedicate al fitness. Il «Times of India» lo descrive come il «Taj Mahal del XXI secolo», in grado di surclassare addirittura Versailles.
Quando però il multimiliardario Ambani si affaccia al balcone, la vista spazia su un mondo del tutto diverso: quello dello slum di Dharavi, con il suo groviglio di tetti in plastica. Centinaia di milioni di indiani vivono in spazi ristrettissimi, senza elettricità, acqua corrente né impianti igienici. Ma non sono solo i poveri a vedere sempre più ridotto il proprio spazio vitale. La maggior parte degli abitanti delle megalopoli dell’Asia vive in case dalla superficie limitata. A Tokyo – con 37 milioni di abitanti il più grande agglomerato urbano del pianeta – la superficie abitativa media pro capite è pari a 15 metri quadri. In Svizzera è circa tre volte tanto!
«Negli appartamenti giapponesi gli spazi vengono utilizzati da sempre con un approccio multifunzionale.»
Un tavolo fa anche da sedia
Il Giappone è un precursore quanto all’utilizzo efficiente degli spazi. I costruttori hanno «sviluppato idee che anticipano il futuro di altri Paesi e altre megalopoli», scrive la «Frankfurter Allgemeine Zeitung». I terreni sono scarsi, di piccole dimensioni e spesso più cari di quanto non siano le case stesse.
A Tokyo, milioni di single vivono soli in pochi metri quadrati. Il monolocale standard assomiglia a un budello, riporta il «Tagesspiegel»: un ingresso di 1 metro quadro con guardaroba, una cucina componibile con ripostiglio, di fronte il bagno. Proseguendo diritto si arriva al soggiorno-camera da letto. Ogni centimetro è sfruttato. Ma la carenza di spazio favorisce il design innovativo. L’architetto Keiji Ashizawa ricorre a porte scorrevoli, ripostigli ricavati nelle pareti e stanze da bagno ridotte al minimo funzionale concepite in modo tale da permettere che tutto il locale si bagni. L’arredamento è multifunzionale: la sedia fa anche da tavolo, il letto da divano.
Gli architetti giapponesi godono di ottima fama. «Creano comfort in spazi minimi, danno vita a costruzioni eccellenti dal punto di vista tecnico e sviluppano soluzioni davvero ardite», afferma Köbi Gantenbein, caporedattore della rivista di architettura «Hochparterre». Questo ha a che fare anche con il fatto che «in Giappone si costruisce al massimo per una generazione, non in prospettiva eterna come da noi».
Una camera da letto grande quanto un armadio
Costruire su lotti di terreno grandi quanto un parcheggio? In Giappone non è un problema. La larghezza minima di un edificio a uso abitativo è di 2 metri. Riescono a «incastrare» una casa perfino in un’«apertura» di 4 metri. Per questo spesso le camere da letto dei giapponesi sono grandi quanto un nostro armadio e le cucine troverebbero posto in un sottomarino. Tipici del Sol Levante sono anche i noti «hotel a capsule», dove gli ospiti dormono in minuscole cabine. Inoltre, a Tokyo, circa 4000 persone pernottano in cubicoli messi a disposizione negli internet café, non potendosi permettere un appartamento in affitto. Gli internet café esistono ancora in Giappone poiché fungono allo stesso tempo da hotel a basso prezzo.
Come spiega l’architetto ed esperto della realtà nipponica Hans Binder, cavarsela con una superficie abitativa ridotta rientra ormai a pieno titolo nella cultura dei giapponesi, una peculiarità dovuta in parte anche al fatto che Tokyo è una metropoli già da diversi secoli. «Negli appartamenti giapponesi gli spazi vengono utilizzati da sempre con un approccio multifunzionale», afferma Binder. Questa limitazione spaziale è diventata talmente un’abitudine che «molti nipponici si sentono più a proprio agio in spazi ristretti che non in ambienti ampi».
Addio alla sfera privata
A confronto con la realtà giapponese, gli standard abitativi svizzeri sono a dir poco lussuosi. Eppure anche qui sono ormai lontani i tempi in cui ciascuno poteva costruirsi la propria casa indipendente. I terreni edificabili sono merce rara. Data la concentrazione demografica, le cooperative di costruzione, in particolare quelle attive in ambito urbano, sviluppano nuove forme abitative che riflettono il cambiamento sociale. Secondo Gantenbein, in quest’ambito la Svizzera riveste un ruolo di primo piano a livello internazionale.
Anziché orientarsi sugli appartamenti per famiglie, le cooperative puntano a risparmiare spazio elaborando unità abitative per gruppi che condividono la cucina e la zona giorno. A Zurigo, hotspot del settore, questi appartamenti a cluster sono presenti nel quartiere Hunziker e nel complesso Kalkbreite.
La cooperativa Kalkbreite sta proponendo un esperimento radicale: la condivisione di due grandi «padiglioni» (da cui il termine «Hallenwohnen») da parte di un gruppo di inquilini. La «più estrema tra le forme abitative», «fortemente proiettata al futuro», trae origine, secondo quanto dichiarato dalla stessa cooperativa, dall’utilizzo temporaneo di spazi precedentemente destinati al commercio e all’industria. Diversi media collegano l’idea all’ambiente degli squatter. Probabilmente sarà il primo tentativo di destinare un padiglione di nuova costruzione a un concetto di vita comunitaria.
Concetti abitativi personalissimi
La struttura viene affittata allo stato grezzo a un gruppo – quindi non a singoli locatari – che «intenda realizzare un proprio personalissimo concetto abitativo dal punto di vista sociale e di organizzazione degli spazi». La dotazione di base è costituita esclusivamente dagli allacciamenti per la cucina e gli impianti sanitari. Saranno gli stessi locatari a provvedere all’allestimento interno e alla ripartizione degli spazi con tecniche di costruzione leggera, secondo il proprio gusto. Si sono candidati cinque gruppi – più di quanto la cooperativa si aspettasse. Il primo colpo di vanga è stato dato nella primavera del 2018, i locali saranno accessibili nel 2020.
Il futuro sarà questo? Chi preferisce la proprietà d’abitazione, ma cerca qualcosa di non convenzionale, ha diverse alternative a disposizione. Anche in Svizzera esistono moduli abitativi di nuovo tipo, che anziché la condivisione promettono indipendenza in case di proprietà di taglia «mini»
Vivere in una minicasa
«Tiny house», minicase ecologiche o «cassoni abitabili»: anche in Svizzera esistono micro case, non solo in Giappone. Si tratta di case molto più piccole e convenienti di quelle tradizionali, e di norma sono anche mobili. Per il momento, però, parliamo ancora di un fenomeno di nicchia.
«Tiny house», minicase ecologiche o «cassoni abitabili»: anche in Svizzera esistono micro case, non solo in Giappone. Si tratta di case molto più piccole e convenienti di quelle tradizionali, e di norma sono anche mobili. Per il momento, però, parliamo ancora di un fenomeno di nicchia.
Tutto per vivere in 35 metri quadri
La Ökominihaus viene utilizzata tutto l’anno primariamente come spazio abitativo e ad uso ufficio. Costruita in legno e altre materie prime ecologiche, è sostanzialmente autosufficiente dal punto di vista energetico. Il progetto di questo modulo da 35 metri quadri è stato sviluppato da Tanja Schindler, esperta in bioecologia della costruzione, e incarna l’idea di una vita ridotta all’essenziale e improntata alla sostenibilità.
Non è certo da ieri che gli hipster di New York o Amsterdam vivono in container navali riadattati in modo creativo. Ma in Svizzera le persone che volontariamente hanno scelto questo stile di vita si contano sulle dita di una mano. Ai container si ricorre principalmente per un utilizzo temporaneo o offerte pubbliche, ad esempio l’ampliamento provvisorio di edifici scolastici o l’esigenza di dare alloggio ai richiedenti asilo. L’architetto basilese Pascal Müller ha sviluppato quello che si può definire un «cassone abitabile». Ora fa costruire ex novo i suoi «cassoni». Il fatto che pochissimi in Svizzera scelgano di vivere in un container a basso costo dipende dall’alto livello di benessere che contraddistingue la società elvetica, crede Müller.
Più diffuso è il loro utilizzo quali aule scolastiche, uffici o locali commerciali. La più famosa costruzione con container è sicuramente la Freitag Tower a Zürich-West: il flagship store del marchio di design zurighese è infatti composto da 17 vecchi container.